Arrivo (non) traguardo

Roma, 04 Ottobre 2020

23ª tappa Oltretevere, Ponte Galeria – Fiumicino, 18 km

 

Guardo il mare di Fiumicino. Lo guardo da Fiumicino.
Dopo quindici anni a Roma è la prima volta che mi capita. Dovevo arrivarci a piedi alla fine. Siamo cotti dal sole, dalla stanchezza. Impresa conclusa.
“Si muore in ciò che si vede. Si acquista la visione a prezzo della mortalità” mi ronza in testa. Iain Sinclair, uno che la sa lunga sul camminare.
Occhi che tradiscono umidità commosse. La stanchezza del mondo si dà appuntamento qui e adesso per aggrapparsi alle nostre gambe di punk post apocalittici che ciondolano fuori contesto per il passeggio sul molo della prima ottobrata.

La ciurma reclama pesce fritto e birra, prezzo giusto, lecito. Rischio di ammutinamento. Stordimento, incredulità. E adesso? E adesso niente.
Adesso niente pensieri. Respirare.

Poi un ricordo:

Ho lasciato casa che avevo appena quindici anni, a settembre. Due mesi dopo ne compii sedici e sperimentai per la prima volta, e per davvero, la solitudine.
Passai il giorno del mio compleanno mitigando la sensazione di soffocamento che mi attanagliava il petto, con sorrisi incontrollati e rilascio di endorfine.
Era un’angoscia esistenziale sconosciuta che in tutta la sua enormità si infrangeva miserrima sugli scogli dell’indipendenza adulta appena conquistata.
Ancora non me ne capacitavo e mi dava l’ebrezza. Dovevo prenderci le misure, insomma.
Espressioni da moribondo in libera alternanza a sguardi satolli di gioia pura. Ma mi ci volle poco per affezionarsi alla nuova condizione di neo libero a zonzo per il mondo. E credo che sia in quell’occasione che il concetto di libertà, nella sua espressione più semplice ed alta, si sia saldato indissolubile a carne e nervi diventando condimento essenziale di tutta la mia esistenza a venire.
Il non ricevere nemmeno una chiamata di auguri poi (si parla di cabine telefoniche e schede da 5.000 lire con i calciatori sopra) lo annoverai senza grossi complimenti fra i dazi da pagare facendone anzi, causa di vanto. Di virilità indiscussa.
Comprai del cibo cinese al take way, due Tsingdao da 66 cl. e festeggiai sull’altalena di un parchetto il compleanno della mia maggiore età.

Il rientro a casa per le feste comandate divenne un ottimo esercizio di osservazione, dentro e fuori un’adolescenza irrequieta.
Il tempo non seguiva più l’andamento fluido della quotidianità, ma era scandito a blocchi di mesi che davano la sensazione di salire o scendere una scala.
Di passare da una stanza chiusa ad un’altra senza sapere bene che cosa aspettarsi.
Il nido materno, per buona fede ed eccesso di attenzioni, da confortevole cominciava a risultare soffocante. I compagni di giochi dell’altro ieri sembravano infantili con i comuni interessi che intiepidivano sul separarsi delle nostre strade.
E come si sa, in un amen non ci si cerca più.
Amorazzi fino ad allora nell’orizzonte del possibile, d’improvviso, si facevano irraggiungibili a causa di una distanza, la mia distanza. Manco anelassi al matrimonio, per inciso. Due baci con la lingua e una toccatina sarebbero più che bastati.
Però alla fine, arrivare a casa dei miei genitori cominciò a coincidere con una sgradevole sensazione di conclusione, di qualcosa in fase terminale. Un’oppressione ineluttabile priva di prospettiva futura.
Mi trovavo nel posto sbagliato a rodermi dall’impazienza contando le ore e i minuti che mi separavano da un treno fermo in stazione pronto a partire per un altrove qualunque.
Ancora troppo giovane e inesperto per comprendere il valore intrinseco dell’arrivo a casa, di ogni arrivo. Quel tempo di mezzo prima di ripartire. Quelle ore, quei minuti.

Il camminare mi ha spiegato la giusta prospettiva dell’arrivo quale ragione essenziale dell’essere viaggiatore, e anche a distinguerlo bene da un traguardo.
E la superficialità che anima l’associare l’idea di arrivo ad una conclusione. Infatti le cose non stanno proprio così, e chi ha scelto di camminare anche come pratica di vita (oltre che di riflessione) questo lo sa bene.

 Arrivare è un verbo aperto, in divenire. Che deve rivelarsi nella sua completezza e che sottende al transitorio perché sottende per forza di cose ad una ripartenza, ad un altro pezzo di viaggio, messo per il momento in attesa a malincuore.
Un futuro che già da lontano odora di sentieri, di zaino e bastone. Di avventura.
L’arrivo è una sosta di tempo opportuno e necessario per rifiatare e curarsi i piedi, prima di tornare il più in fretta possibile a bighellonare disegnando il suolo a passo lento, per bearsi di nuovi stupori dietro nuove curve.
È una pausa da domenica a domenica, ma anche lunga, volendo. Da estate ad estate. Dipende dai casi. E bisogna saperla prendere per il verso giusto saltellando sul posto con le gambe che hanno voglia di andare e un tarlo in testa che martella il suo e adesso che faccio, adesso che faccio?
Tra un arrivo e l’altro, si studiano le mappe, si fantastica sui nomi, si trova una località e ci si picchietta su con il dito. Si immaginano sentieri, vie e percorsi tracciando linee con una matita. Cerchiando e sottolineando ci si finge una volta in più esploratori, dando libero sfogo a quegli istinti infantili del gioco e della scoperta che non sono appannaggio soltanto di chi è cresciuto sui romanzi di Salgari. È transgenerazionale. È anche per chi è nato in piena epoca digitale. E allora si scaricano app, si consultano siti e aggiornano navigatori acquisendo tracce gpx. Si consultano e consumano amici con più esperienza. Si cercano consigli, dritte, informazioni.
Che poi, in finale, è l’altra metà bella di ogni viaggio a piedi: prepararsi a puntino per arrivare comunque puntuali ad un arrivo.

Essendo parola aperta, per chi cammina arrivo e traguardo sono concetti ben distinti, da non confondersi. L’arrivo non coincide per forza con un punto prestabilito che pone un termine, un obbiettivo raggiunto o da raggiungere su una mappa. Con delle coordinate.
Arrivo fino alla curva. Stasera arrivo a.
Ha piuttosto il fascino della sfumatura. Dell’imprevisto che sposta l’asticella o la cambia del tutto.
E si scopre come l’arrivo infatti abbia molto più a che fare con i giorni e le settimane che con i chilometri. Con il per quanto si sta in giro prima di fermarsi.
Tempo riempito, prima che spazio percorso.
Sono gli arrivi, tutti gli arrivi, a costituire quella collana preziosa da tenere in tasca e sgranare con le dita della memoria quando più se ne ha voglia o bisogno, mentre ci si consuma per una ripartenza.
Più un camminante è fortunato, più saranno gli arrivi inanellati alle partenze prima del grande balzo di luce verso le stelle, o quello che è, passaggio inevitabile che si sugella con la propria data di inizio e di scadenza messe sotto una foto, e non con una distanza percorsa.
Mi piace pensare che anche quello sia soltanto un altro arrivo prima di una ripartenza.

 

È questo è un arrivo condiviso. Sono tanti arrivi in uno. Tante pause.
E i nostri sguardi muoiono insieme sull’orizzonte comune, nella stessa direzione.
Gente per bene, buoni camminatori, ottimi compagni di viaggio.
Non credo di poter volere molto di più se non questo.
Giusto ordinare un’altra birra.