Famiglia

Ph. Ilaria Di Biagio

Brufa (PG), 12 Settembre 2020
7ª tappa Oltre Tevere, Parlesca – Perugia, 21 km

Vedrai che persone sono – dice mio padre per telefono. E quando dice così, difficilmente sbaglia, lo so. Sento mia madre che grida da lontano dagli un abbraccio!

Brufa è una frazione lanciata in alto. Un pezzetto di ghiacciaio sopravvissuto in collina che resiste insieme agli altri delle colline umbre.
A camminarci è impossibile non intenderne le origini. Un castello scoperchiato. Il tronco di un albero che mostra gli anelli per poterci passeggiare nel mezzo. Una chiocciola di piccole porte, case casine casette. Lastricato a terra.
A pochi passi dall’unico campanile un parco pieno di sculture.
Da più di vent’anni Brufa ha deciso di assecondare la sua vocazione per il bello con una collezione di arte pubblica che ha del miracoloso. Ogni anno aumenta di una scultura.
E finiti i vicoli del borgo, gli si trova dimora nel nuovo spazio ancora in costruzione. Tramonto in faccia e cielo che comincia a stellarsi fra le scavatrici. Venere al suo posto come sempre, mentre un vento che sa già di vigna mi acchiappa alle spalle.
Io di mio non sono un esperto, ma sembrano una più bella dell’altra. Una scelta oculata, una curatela intelligente. Sempre eleganti e mai strillate. Tensione senza angoscia. Vuoti e pieni che dialogano armoniosi. Il numero delle opere e le loro dimensioni.
E in ambito di arte pubblica -fuor di polemica- mi pare un secondo piccolo miracolo.

Sarà Brufa, saranno le colline, le sculture, ma Salvatore e Marina non potevano che essere parte di questo. Inzuppati fino al collo. Molecola per molecola.
Aprono la porta di casa al figlio dei loro amici lontani e al resto della truppa in cammino senza imbarazzo, senza rimpianti. Come gesto ovvio. Antico.
Salvatore mi prende a braccetto per farmi entrare in casa, mi chiama Pietrino. Marina si preoccupa del benessere di ognuno. Come vanno le gambe come vanno i piedi. Ditemi che cosa vi serve. Cosa mangiate a colazione. Premurosa per condizione umana e non per scelta.

Varcando la soglia penso.
I colori, i profumi, l’arredo. Le sensazioni.
Sono l’espansione naturale della mia famiglia e io della loro, parola che sfuma e che perde le discendenze precise del sangue in Carlo e Stefano che sono subito fratelli minori.
(E pure  l’arruffato Pablo accetta con pazienza Tumpi il cinghiale che mira alla sua ciotola)
Suoniamo insieme un paio di De Andrè d’annata prima di cena. Si beve vino, si mangia di gusto. Si parla di cammino e di Tevere. Si parla dei miei genitori e di quanto li vorremmo qui. Di Elio e Luisa che invece non ci sono più.
Delle nostre speranze dei nostri desideri dei nostri sogni. Non robetta per tutti, insomma.

Il giorno dopo Marina e Carlo ci accompagnano per un buon pezzo lungo il Tevere.
Dobbiamo abbandonarlo per conquistare Perugia.
Sarebbe da folli non farlo arrivati fin qui.
Carlo ci accompagna lungo l’antico sentiero delle lavandaie fino in centro. Marina deve tornare indietro.
Beviamo birra e mangiamo pizza guardando le colline dopo aver visitato il centro con la bocca a cerchio. I turisti si spostano per far passare gli zaini e i bastoni. Il sudore sulla fronte.
Il barista è simpatico come Pacciani ma non turba il nostro buon umore.
Carlo ci dice che nei sui ventidue anni non era mai entrato a piedi a Perugia. Niente di preoccupante, normale amministrazione.
È giovane, ha altro a cui pensare. Ascolta buona musica, suona e vuole fare il liutaio per costruire chitarre. Mentre parla del camminare gli vedo uno scintillio negli occhi che mi pare familiare. 

La sera Salvatore ci mostra la piccola finestrella della camera da letto al piano di sopra. Nella notte tersa inquadra perfettamente Assisi sdraiata di fronte tremolante di bianco. Sembra un sogno tiepido di vento caldo che odora di tegole
– È come avere un quadro vivente – ci dice. E ha ragione.

Ripartire e salutarli tutti il giorno dopo è una piccola sofferenza.
Quella della famiglia Che si deve lasciare e dove si vuole tornare.