° INELUTTABILE °

Minerbe, Vicenza.

Mossano (VI), 27 Giugno 2019
Da Orgiano a Longare per 21 Km

La Val Padana è tante cose. La più vicina all’evidenza è un accadimento urbanistico deplorevole. Ed è anche la più vicina al plausibile, probabilmente.
La settimana più calda dell’anno si sovrappone con inusuale puntualità all’attraversamento pedibus calcantibus di una piana alluvionale tutta sotto isoipsa 100 che ha del cristologico. Le distanze non le quantifico più, farò i conti alla fine. Ora rispetto giusto le tappe con la priorità di sopravvivere per rivedere i miei cari. La tentazione di buttarsi in un canale per galleggiare a faccia in giù e chiudere qui la cosa una volta per tutte, è molto forte. Ma tengo duro. Provo a conservare la lucidità necessaria per distinguere le visioni mariane sul crinale di una collina in lontananza, da sagaci considerazioni paesaggistiche afferenti gli infiniti cardi e decumani della valle del Po. Alla fine la barriera di quota 100 mt viene sfondata dalle parti di Vicenza. È l’amico e collega Marco che oggi mi raggiunge e mi guida sui colli Berici. A me, dopo otto giorni dove il dislivello maggiore l’ha offerto il gradino d’entrata di un bar, paiono l’Annapurna. Mi manca il fiato, mi gira la testa. Riscopro come siano diversi i muscoli delle gambe progettati per la salita da quelli pensati per la pianura. Il corpo umano è memory form, me ne scordo sempre. Lo devo riassettare, ricalcolare il baricentro in base allo zaino, rivedere il passo. Il respiro. Abbandonare le branchie per tornare alle vecchie maniere. Marco mi porta sulla terrazza della frazione di Mossano. “Vedrai, vedrai” insiste “Ci abbiamo fatto mille feste. La vista è splendida”. E in effetti. La Val Padana si srotola per intero in piena direzione Sud, rotta uno-otto-zero. Con i platani che fanno da vele sembra di stare sul cassero, di vedetta. Quella sarà la Tunisia penso, mentre negli occhi mi si dipinge la riga immaginaria dei passi che mi hanno portato fino a qui, uno dopo l’altro. Il confine al fondo si perde nell’intelligibile, altrochè. Da dove sono arrivato. Nemmeno gli Appennini si vedono, rifratti e scomposti nella lastra di foschia immobile, che con buona probabilità è smog. “Il Veneto è un ottimo esempio di città diffusa” dice Marco “Di dispersione urbana. Ma di molte città contemporaneamente”. Il Veneto come macro città. O forse anche tutta la valle del Po. Chissà. Tanti piccoli arcipelaghi di tetti. Stradoni nel mezzo. Zone industriali a caso. Un enorme parcheggio per il megamall. Rettilinei che inducono la velocità da Route66. Poi due villette, il niente, e svincoli che disegnano fiori di asfalto. Magazzini, per merci, persone e animali. Alcuni colorati fluo, ma sempre magazzini di merda in mezzo al nulla restano. Raccordati da campi di pannocchie, grano, sorgo. Allevamenti e canaletti fra i prati. Con il risultato di non capire piu cosa sia città e cosa sia campagna. Sempre che qui, una differenza esista davvero. Distributori automatici di benzina arricchiti da distributori automatici d’acqua. La macchina, l’uomo. L’uomo-macchina. Mossano pare salva e salvifica. Anche solo per istinto, oasi di logica antica.
Il vento prende alle spalle e sospinge da nord le belle bestemmie di una volta da tre tavoli più in là dove si gioca duro a scopa, fra bianchetti e salamelle, manco fosse Novecento di Bertolucci. Un’aura incantata, di tradizione bucolica, vicina soltanto alle tribolazioni della terra da arare e delle bestie da curare, ben al riparo dagli sconquassi dell’era industriale. Dei fenomeni urbanistici di crescita disordinata delle città.

La città diffusa (lo sprawl urbano) interessa in genere una sola città, dove la crescita rapida e poco regolamentata delle periferie si concretizza in un sovraconsumo del suolo, un annichilimento delle aree verdi, una iperdipendenza dall’uso dell’automobile e soprattutto, vive di una scarsa densità abitativa. Poche persone molto lontane fra loro, mal collegate. A guardarmi indietro, Marco ha ragione. In un’area relativamente “piccola” come la Val Padana, sono moltissimi i centri abitati a subire questo modello di sviluppo. (Anche perché è il numero di città, per motivi storici, ad essere elevato rispetto ad altre zone simili del mondo). La conseguenza è un unicum identico a sé stesso, un paesaggio con pochi guizzi di fantasia e originalità, al netto delle possibilità di bellezza che può offrire, o meno. Ad essere onesti, più di una volta mi sono ritrovato a pensare che camminare in provincia di Modena, Mantova, o Vercelli, sarebbe stata la stessa cosa. E che quella villetta con la finestra rotonda, le colonne a spirale e il prato all’inglese piantato nel cuore di un’area industriale come trionfo di un geometra di paese, sarebbe potuta essere della bassa cuneese come di quella padovana. Con buona pace dei quasi cinquecento chilometri nel mezzo. Il fondovalle, si presta più facilmente a questo tipo di meccanismo, banalmente perché più facilmente costruibile e con minor ostacoli naturali da superare. Per contrappasso, al di là dell’ombra e del venticello più che appetitosi, mi viene da pensare che ormai anche la pratica della vicinanza umana sia più adusa al collinare e al pedemontano. I nostri bestemmiatori si radunano in collina per ritrovarsi, dopo una vita da dispersi giù nel basso, dove si smarrisce in un attimo l’orientamento, quello geografico come quello esistenziale, a volte senza rendersene conto. Membri della stessa setta degli isolati, soliti alla diffidenza verso il prossimo ma che qui non esitano ad offrire un bicchiere.

Con Marco optiamo per un’ora di pausa. Occupiamo due panchine e ci sdraiamo.
Mi addormento cullato dalle bestemmie che mi riporta il vento e che cerco di tradurre. Alcune sono davvero impossibili.
Marco invece, lo sento sghignazzare da solo, perché le capisce tutte.