>OD21< Il prologo cinese

Torino, lunedi 28 giugno 2021

Ci risiamo.

Con l’espediente narrativo che sa già di stantio.
Camilleri almeno ci ha imbastito un impero sopra a sta menata del non parlare mentre si mangia. Il cibo che porta consiglio.
Cena meditabonda in solitaria. E di nuovo cibo cinese che sa di cinese. Come l’anno scorso prima del Tevere. Mica i mitili e i molluschi del commissario. Il basilico e il mediterraneo, che ci giochi facile con i succhi gastrici.

Ma che mi farà mai sto cibo cinese.
Sempre qui finisco a buttar giù pensieri di inizio avventura. Diversa location, ok.
Medesimo menù.
Udon che sembrano gomene sulla banchina. Verdure che a friggerle o a intonacarle sarebbe la stessa roba.
Però il tipo del tavolo di  fianco la faccia ce l’ha.
A scomodare la fisionomica, pare una civetta di Goya. Bestia atta alla trasformazione, chissà.
La civetta ordina il conto e un san simone con il ghiaccio. Mentre guarda il vuoto della stanza che strilla, per non guardare al suo.

Sabato si parte per Genova. 

Vent’anni dopo e quasi venti chilogrammi di più, che pure questa sa di stantio già mentre la penso. Scritta, fa ancora più cacare.
Qualche capello in meno e un ginocchio ridotto male che manco un giocatore di serie A
E va bene, partiamo e poi vediamo. Che il camminare aggiusta.
Anche la stanza c’ha la sua faccia. Perché mai un cinese in mezzo a corso Madama a Torino debba riempire il soffitto di specchi serigrafati e niente d’altro, rimane uno dei grandi misteri del vivere. Come le magliette dal collo a V, oppure i bancomat progettati contro sole.

Sembra di cenare sul set di un porno.
La vetrina al fondo, trionfa di alluminio anodizzato. Vicino, un tavolino.

Vivo un mondo che ha reso il dispenser di amuchina, parte integrante del paesaggio contemporaneo. Soggetto più del soggetto stesso.
E di una sicurezza delegata a termometri elettronici che ogni volta mi dichiarano morto.
Ecco cosa è successo 20 anni dopo. E ci voleva una ragazzina di 16 anni da sola e imbronciata per cominciare a far capire alla gente quello che già dicevamo allora, e anche da prima.
Che il pianeta è delicato, in equilibrio perenne e che ad azione segue reazione.
Si vede che l’orologio di una pandemia ha cominciato a fare  tic tac per tutti.

Per contorno, i soliti mille dubbi.
Ma che cazzo ci vado a fare a Genova?
E poi perché mi sento sempre cosi dannatamente, profondamente, irrimediabilmente solo?
Forse ci vado per quello, per non sentirmici.
Per incontrare nuovamente quella famiglia allargata che eravamo e che forse siamo ancora. 

Ah e per ripetere, se ce ne fosse di bisogno che:

  1. non siamo come loro, ringraziando il cielo,
  2. che siamo ancora qui nonostante le botte, i pestaggi indiscriminati di persone inermi, i manganelli, quello schifo della Diaz, quell’orrore di Bolzaneto e che 
  3. sì, avevamo ragione noi. Fatevene una ragione e al posto di trattarci da teppisti e scomodare ogni volta lo spauracchio comunista, magari stateci a sentire. 

Che poi io comunista lo sono mai stato.
Il vostro sistema di pensiero, oltre questa gestione pedagocica della piazza, hanno fallito.
È evidente ora più che mai in Italia come nel mondo.

– La grappa la vuoi di rosa, di bambù o di ginseng? – 

Che differenza c’è, chiedo.

– Una sa di rosa. L’altra sa di bambù e una di ginseng –

Quando anche un cameriere ti guarda come tu fossi un ragazzo svantaggiato, è ora di andare.
Va bene, sono pronto.
L’alluminio adonizzato scintilla per un’ultima volta alla mie spalle nel caldo di una Torino che pare Mosul