| Quanto é piccolo il mondo |

Pegli, martedì 05 agosto 2014
XVIII tappa: Genova centro – Cogoleto. 31 km

Avrei voluto baciati amore,
ancora un poco prima di andare via,
Prima di essere scaraventati
dentro questo tipo di pornografia

Francesco de Gregori –  “Bambini venite parvulos ”

 

Anni fa, mentre mi trovavo a una festa, un ragazzetto sui vent’anni, parente della
festeggiata, mi attacca un bottone micidiale. Chi mi conosce lo sa: un altro
dei superpoteri miei e della mia famiglia é l’essere come miele per i depressi,
i lamentosi, i paranoici, i pazzerielli e più in generale, per i noiosi di ogni
risma e fattura. Da diverse generazioni, pare.
Il giovanotto per quattro volte, dopo avermi messo a conoscenza delle nostre
svariate amicizie in comune (cosa già noiosa di per sè, e poi se siamo alla
stessa festa, ci sarà qualche nesso, no? A Cuneo poi…) esclama con aria
soddisfatta, se non trionfante: “Ma pensa tu quanto é piccolo il mondo!”.
Poverino, mica niente di male, ci mancherebbe, ma potrai, a nemmeno vent’anni,
essere così pirla e non renderete conto?
Al quinto tentativo me la do a gambe con la scusa dei furetti a casa che mi
aspettano e che se non torno mi vanno in apprensione e vomitano. Troppo anche
per me, seppur forte dei miei avi.
Perché questo preambolo cretino? Soltanto per dire quanto é piccolo il mondo.
Ecco l’ho detto. E che i casi della vita, in effetti, sono davvero strani. E
non perché stasera non abbia idee per scrivere, giuro.
Arrivo a Genova-città che la celeberrima Costa Concordia ha attraccato a Pegli
da qualche giorno. O meglio, quello che ne rimane. E tu pensa come é piccolo il
mondo: questa vicenda, che non ha fatto altro che disgustarmi fin dal principio
e che ho cercato di evitare il più possibile e in tutti i modi, mi si para
davanti anche non volendo, camminando in direzione Spagna. Non potevano
portarla, che so, a Bari?
Finito il siparietto cronacar-politico ad uso del sempre
giovanesindacodifirenzeMatteoRonzieRenzi e glissando sulla reale necessità
sotto questo cielo dei ristoranti con”terrazza vista Concordia”, ecco
qui che cosa davvero rimane di questa storia al limite del reale. Tonnellate di
ferro arrugginito da smantellare. Una megattera abnorme spiaggiata su un molo
di cemento armato. Oltre alle vittime. Oltre il danno ambientale. Oltre la
colossale figura di merda, ultimo dei nostri problemi, ok. E l’anonimo
Schettino divenuto personaggio pubblico, se non addirittura degno dei libri di
storia. Rendiamoci conto. Il comandante sudafricano che ha curato con precisione
chirurgica il recupero dal Giglio, si é dimostrato invece meno sicuro in fatto di poesia,
paragonando, in un’intervista, la Costa Concordia a una vecchia signora elegante alla quale
si é mancato di rispetto, ferendola e offendendola. E complimenti per
l’originalità! Gesù. Io, a guardarla da qui, dal lungomare di Pegli, non riesco
a non vedere un condominio mortifero di venti piani, lungo il quale si accalca
una folla umana attrezzata con ogni sorta di trabiccolo fotografico in preda
alla psicosi maniacale da scatto ricordo. Tocca partecipare per forza al rito
collettivo della fotografia macabra a quanto pare, bypassando ogni sorta di
ragionamento critico sullo squallore dell’atto in sè e sulla minchionaggine
intrinseca che si porta appresso. Ed eccomi infatti qui con l’iPhone in mano,
come gli altri tenuto a distanza di sicurezza di almeno 500 mt, che lo scafo, a
guardarlo sul monitor, potrebbe essere davvero un condominio qualunque della costa
di ponente. E si sgomita eh? Vecchiette contro ragazzini. Madri di famiglia e
attempati signori con binocolo. Mica per ridere, quasi ci fosse un modo per
ottenere immagine diversa, migliore, più originale, di un’altra tutti qui
serrati gomito a gomito contro lo stesso muretto. Ma non é questo il punto,
ovviamente.

In queste situazioni, l’azione del fotografare é ormai quasi un gesto onastico,
di affermazione del sé mediante l’atto di ripresa e riproduzione digitale, fine
solo a se stessa, e mai ad altro. Fotografie che spesso durano il tempo dello
sguardo al retro della fotocamera e spesso nemmeno scaricate su un supporto
diverso dalla flashcard, per salvarne almeno una parvenza di importanza
documentale, se non collettiva, almeno privata.

É un affermazione istantanea, valida durante la propria pratica, e che sottende
al io ci sono e non piu al io c’ero. Questo é successo e ne sono testimone.

Con gli stili di vita cambiano il linguaggio e pure i tempi verbali.

Lo scatto é diventato, vorace, ingordo, sequenziale, in qualche modo ottuso.

Qualche giorno fa, in cammino, un’amica reporter, mentre mi accompagna per un
paio di tappe intorno Sestri Levante, mi racconta di come una nostra comune
conoscente non abbia una fotografia del figlio nel suo primo anno e mezzo di
vita e questo per un motivo molto semplice: le hanno rubato la macchina
fotografica. Ora chiede aiuto agli amici perché, va da sé, mai le é venuto in
mente di scaricare e mettere al sicuro le sue immagini. Di contro, le racconto
di mia madre che invece le scarica eccome sul computer, le cancella dalla
scheda e non fa copia del disco da anni; e siamo punto da capo. Non perché non
sarebbe in grado di fare un backup della memoria, anzi, se la cava alla grande
a smanettare fra mouse, doppi click, cartelle e sottocartelle, ma proprio
perché la possibilità di perdere per sempre delle immagini, non é nel suo
orizzonte di prospettive possibili. Un’altra generazione, insomma, che é la
stessa a cui appartengo io, di pergamini pieni di negativi e stampe orribili
lucide 13×18 cm in ogni dove, in mille album, scatole e cassetti.

Il semplificarsi del mezzo, la sua democratizzazione e velocizzazione
dell’accoppiata scatto-visione sono cresciute di pari passo, come ovvio, con
una sorta di pigrizia per quel che riguarda archiviazione e conservazione. E
questo lo si riscontra in quelli che possiamo chiamare dilettanti, come nel
micromondo dei professionisti o sedicenti tali, che a loro volta faticano
spesso a organizzare e preservare un archivio personale, cosa invece all’ordine
del giorno, anche se ancor più macchinosa, fino a una quindicina di anni fa.

Eccezion fatta per le fotografie delle grosse banche immagini e delle tanto
odiate agenzie “spersonalizzanti”, che si sono fatte carico (non di
certo per filantropia, lo sappiamo) dell’archiviazione con didascalizzazione e
metodi di ricerca e recupero di un’immagine, tutto il resto dell’enorme
documentazione privata fotografica dell’umanità, potrebbe essere quindi
seriamente a rischio? Se a questo si vuole aggiungere la rapidità di
invecchiamento delle diverse tecnologie che faticano a far ragionare un
programma di un sistema operativo con quello precedente e viceversa, nell’arco
di una decina d’anni, gli effetti di questa “analfabetizzazione
conservativa”, potrebbero farsi più che concreti per la maggior parte
degli utenti.

Prima che da professionista del settore, la questione mi preoccupa da amante
dell’arte fotografica. Davvero, scattiamo immagini che poi spariranno -butto li
a caso- nel 90% dei casi, se non “processate” per il verso
tecnologico giusto?

Non riesco a non vedere un nesso con un’altra notizia a mio parere sconcertante
e sulla quale vale la pena riflettere.

Nell’estate del 2012 Facebook ha superato i cento miliardi di immagini
uploadate sulla propria piattaforma. Sono un uno seguito da undici zeri, se no
erro. Mi ha molto colpito come, anche fra i professionisti, questo record sia
passato praticamente inosservato. Forse perché ineluttabile? Siamo di fronte
all’evento storico della nascita del più grande archivio di immagini mai creato
dall’uomo. Bisognerebbe almeno parlarne.

Tante sono le leggende sulla proprietà delle immagini uploadate su Facebook. É
una delle domande che mi viene posta più spesso dai miei allievi a scuola.
Puntualmente depongo le armi e ammetto la mia impreparazione, visto che nemmeno
sono utente del famoso social. Nel voler farvi parte però, sono certo che a un
certo punto venga richiesto di accettare o meno delle condizioni, che forse
bisognerebbe avere la pazienza di leggere, cosa che ogni volta mi propongo di
provare a fare pur io, per colmare la grossa lacuna.

Un sospetto però credo sia lecito. Ma tra vent’anni, tutte le nostre immagini
mal conservate in privato, saranno reperibili solo mediante Facebook e in rete?
Cioè, il socialnetwork diventerà estensione di un’archiviazione privata
assurgendo a memoria collettiva? E a questo punto: avrà un costo tutto ciò?
Sarà possibile ritrovare, per riappropriarsene, le proprie immagini? Perché al
momento mi pare di capire che tutto sia free ma anche che il web, in generale,
stia avendo una forte flessione verso il pay, pure per servizi che prima non lo
erano.

Lungi da me complottismi, dietrologie e meno che mai le tentazioni luddiste,
per carità. Anzi, ribadisco, la mia non totale preparazione sull’argomento, ma
soltanto per saperlo e per dircelo. E per poter, nel caso, scegliere il da
farsi con tutti gli elementi per valutare alla mano. Credo sia importante
parlarne, insomma.

In ogni caso, mentre guardo questa variegata umanità soddisfare i propri bassi
istinti di riproduzione fugace del sè, mi ritorna in mente, l’idea provocatoria
alla base della ricerca del tedesco Joachim Schmidt sulle Immagini degli altri
e che già nel lontano 1989 annunciava: “Nessuna nuova fotografia finché
non saranno utilizzate fino in fondo quelle già esistenti!”

Come a dire: cari signori, inutile continuare a scattare istantanee che nemmeno
riusciamo a consumare.

L’iperproduzione di massa (d’immagini) , genera inquinamento (visuale).

Mi allontano dal parapetto e mi rimetto in direzione di Caricamento, al porto
di Genova. Cerco un pullman per tornare indietro verso il centro storico, dove
mi attendono Piermario e Maria, i due amici che mi daranno riparo per questa
stanotte.

Mentre mi allontano, un gruppo di ragazzini gioca sugli scogli a tirare sassi e
raccogliere conchiglie, proprio al di sotto di dove i genitori sono intenti a
scattare selfie e foto ricordo. L’acqua é screziata arcobaleno per via del
carburante e dell’olio motore. A riva si accumulano detriti e plastiche di ogni
tipo. Spuntano qua e la barchette abbandonate e affondate tra canneti malsani e
un cartello a pochi passi recita un laconico “divieto di bagnarsi, acque
inquinate”

Mi pare un ottima allegoria del momento da portarmi via con il telefono, e più
che a Genova Pegli, mi pare di essere in un episodio di Ken Shiro.