Tevere Mississippi

Città di Castello (PG), 10 Settembre 2020
5ª tappa Oltre Tevere, Città di Castello – Umbertide, 33 km

 

È da tanto che voglio dirlo, ma non mi oso. Lo faccio ora, va.
Non si smette mai di imparare.
Che é un po’ come dire che Pippo Baudo è un professionista (cit.) (e andare a cercare)
Però è vero.
Sento l’amico Marco per telefono e gli racconto delle distese di tabacco che stiamo attraversando da ore. Spendo un certo lirismo. Pare l’Alabama (mai stato), la luce disegna le venature verde chiaro in controluce. Foglie come orecchie d’elefante. Il vento fa le onde. Il Tevere scorre placido.
Esotico insomma. Commovente.

– Ah, sei in Umbria allora – dice lui ammazzando ogni afflato romantico.
Pare tutto il mondo sapesse che in Umbria si coltiva il tabacco in maniera intensiva tranne me. E non da ieri. Si dice dal XIV secolo, di sicuro nel XVI. La tabacchiera d’Italia.
– Ci passi in mezzo con la E45 in macchina –
(Che poi  è un po’ la vendetta del motore a scoppio su tutta la mia stucchevole retorica del camminare per imparare, esplorare, approfondire lentamente un territorio grazie all’erranza. Stacce!)

La monocultura è e rimane una piaga, penso.
Ma Benito non pare curarsene. Si fa fotografare volentieri fra i filari, con il suo cappello da cowboy di Città di Castello – ma non c’entro nulla con quello là famoso con il mentone – mi dice. E mi fa l’occhietto. Ora se ne occupa suo figlio che lui ne ha appena fatti ottantacinque, ma una supervisione ce la butta comunque, si sa mai. Ha lavorato in Germania da ragazzo come tanti altri e appena ha potuto, bei soldi con il tabacco.
-Per cento ettari, bastano quattro o cinque persone al massimo – mi spiega qualche giorno dopo Matteo mentre mangiamo tagliatelle al tartufo. Ha un’azienda agricola e ne sa a pacchi e mi conferma quello che già pensavo di mio. – Contro i quattordici che per esempio richiederebbero degli ortaggi -(Fra la prima pianta di tabacco che ho visto e questo pranzo saranno passati almeno cento chilometri abbondanti di filari)
– Il tabacco lo pianti e lui va. Poi passi con una macchina e hai finito – inforchetta di nuovo – ci riuscirebbe pure uno zuccone –
Meccanizzazione della raccolta e sovvenzioni pubbliche hanno drogato il mercato.
-Se per un ettaro ad ortaggi  a me offrono trecentocinquanta euro di fondi europei – dice – per il tabacco ne puoi prendere fino a quattromiladuecento, che sono piu di dieci volte –
Tenendo presente che la richiesta del prodotto viene direttamente da due grosse company internazionali (difficile immaginare quali…) che garantiscono l’acquisto diretto e incentivano quindi a loro volta.
Et voilà, monocoltura per centinaia di chilometri con il Tevere che si fa Mississippi.

Non me ne intendo, ma non ci vuole un cranio per immaginare un terreno impoverito, spremuto fino all’ultima particella di azoto, fosforo e potassio. Senza contare il dispendio gigantesco di energia per puppare su acqua dal Tevere grazie ad una pianta perennemente assetata.
E dove non può la natura, ecco la sintesi chimica. La tentazione che si fa necessità del fertilizzante in uso massivo. Con buona pace delle falde acquifere o del lento scorrere del terzo fiume più lungo d’Italia lì ad un passo.
Di rotazione o maggese, mi pare di capire, manco l’ombra. Roba da cavernicoli in anacronistico conflitto con la filosofia del guadagno. Con il mantra dell’ottimizzazione.
Ma questo lo penso io, non Matteo mentre ordiniamo il dolce.
-Cento ettari possono rendere fino a cinquecentomila euro. Difficile non cedere alla tentazione-
Sono cifre da capogiro, contando che il 94% del tabacco nazionale viene prodotto qui.
Sembra sconsolato mentre dice – Non è agricoltura. È dare in prestito il proprio terreno e quattro macchinari e due competenze. La company ti dice di fare così, tu lo fai e fine. E lo stato ti sostiene pure con soldi pubblici ammazzando ogni altro tipo di inventiva o di creatività imprenditoriale, distraendo fondi che potrebbero andare in ricerca per esempio –
Arriva una coppetta di gelato che si rivela una bacinella
– E lo sai come si conclude il capolavoro? – chiede – Con lo stato che ora ti sovvenziona se ti riconverti ad altro. L’opinione pubblica ha fatto il suo e soltanto ora si stanno rendendo conto di quanto la questione sia insostenibile. Lo stato in qualche modo deve salvare la faccia –

Il telefonino di Benito squilla. Sua moglie lo reclama. Si toglie il cappello e sale sul suo  pick up. Mentre si allontana mi saluta con la mano fuori dal finestrino. Sembra una scenda di un film di Clint Eastwood.
Riprendo a camminare poi mi siedo su un tronco abbattuto per  cercare di ripescare un vecchio appunto che mi ronza in testa e non ricordo.
Michael Pollan da  “Il dilemma dell’onnivoro”

“Quando scambiamo ciò che siamo in grado di conoscere per tutto quello che c’è da conoscere, abbandoniamo la salutare presa di coscienza della nostra ignoranza e pensiamo con arroganza di poter trattare la natura come fosse una macchina”